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Lo Shibari è per tutti i corpi

Lo Shibari è per tutti i corpi , un’arte del legame che parla di libertà, desiderio e inclusione

Nel mese del Pride, tra bandiere arcobaleno e rivendicazioni di visibilità, mi piace ricordare una cosa semplice ma fondamentale: le corde non giudicano.

Lo Shibari, nella sua forma più autentica, non appartiene a un solo corpo, a un solo genere o a una sola estetica. È una pratica che vive nelle mani, nei desideri, nelle relazioni tra persone diverse.
Eppure, ancora oggi, sui social e nei media, vediamo rappresentazioni tutte uguali: corpi magri, giovani, flessibili, spesso femminili, quasi sempre cisgender.

Ma la realtà è un’altra. Lo Shibari viene praticato ogni giorno da persone queer, trans, non binarie, disabili, curvy, neurodivergenti, uomini e donne fuori dagli schemi. Ed è proprio lì che risiede la sua forza: nella diversità.

In questo articolo voglio raccontare perché lo Shibari può (e deve) essere uno spazio radicalmente inclusivo, e come il Pride, la storia del movimento LGBTQ+ e l’esperienza concreta dei corpi possono aiutarci a ridefinire questa pratica.

Shibari: un linguaggio senza etichette

Lo Shibari è, prima di tutto, un modo di comunicare.
Attraverso i nodi, la tensione delle corde, la posizione del corpo, si esprimono emozioni, ruoli, desideri. Ma a differenza di molti altri linguaggi, lo Shibari non ha bisogno di una forma fissa o di un’identità predefinita.

Non importa chi sei, come ti presenti, che corpo hai. Le corde non chiedono spiegazioni.

In una società che tende a incasellare, etichettare, ridurre ogni esperienza a qualcosa di leggibile e rassicurante, lo Shibari ci invita a stare nel fluido, nel sensibile, nel non detto. E a farlo insieme, nel rispetto e nel consenso.

Questo vale sia nelle pratiche più intime e casalinghe, sia in quelle performative. Chiunque può legare o essere legato. Non ci sono regole valide per tuttə, se non quella dell’ascolto reciproco.

Lo Shibari non è binario. Non lo è nei ruoli, non lo è nei generi, non lo è nei corpi. È un’arte che si costruisce ogni volta, tra le persone che la praticano.

Il Pride come spazio di memoria e futuro

Quando parliamo di inclusione nello Shibari, non possiamo ignorare il legame profondo tra sessualità, identità e diritti.
Il Pride non è solo una festa: nasce da una rivolta.

Nel giugno del 1969, al Stonewall Inn di New York, le forze di polizia fecero irruzione in un locale frequentato da persone LGBTQ+ e da chi, in quel tempo, veniva definito “deviante”. Tra loro c’erano drag queen, sex worker, persone trans, e anche membri della comunità BDSM e leather. Le proteste che ne seguirono diedero vita al movimento Pride come lo conosciamo oggi.

Il Pride nasce come reazione alla repressione.
Come rivendicazione del diritto ad esistere, a esprimersi, a desiderare.

Ricordare questa origine è fondamentale per chi pratica oggi Shibari o BDSM. Non solo perché molte delle persone coinvolte erano parte delle stesse comunità, ma perché la battaglia per la libertà sessuale e quella per la libertà d’identità sono, da sempre, intrecciate.

Lo Shibari, come atto consensuale e relazionale, si inserisce perfettamente in questa eredità. Non è solo un’estetica, ma un modo per dire: “questo corpo, così com’è, ha diritto al piacere, alla visibilità e alla cura.”

Corpi fuori norma: la bellezza che i media non mostrano

Basta una breve ricerca online per rendersene conto: gran parte delle immagini di Shibari che circolano mostrano lo stesso tipo di corpo.
Snodato, sottile, bianco, giovane, femminile, fotogenico.
Una visione estetica ripetuta al punto da sembrare l’unica possibile.

Ma la realtà è ben diversa.

Nei dojo, nei workshop, negli incontri privati, lo Shibari viene praticato da corpi grassi, corpi trans, corpi segnati da disabilità, corpi anziani, corpi queer, corpi neurodivergenti.
E ognuno di questi corpi porta con sé una storia, delle necessità, e un modo di vivere il legame che arricchisce la pratica stessa.

Quando i media propongono sempre lo stesso immaginario, il messaggio implicito è chiaro:
“Se non sei così, non è per te.”
Questo crea insicurezza, esclusione, vergogna.
Eppure lo Shibari, nella sua natura più profonda, non discrimina.
È adattabile, morbido, rispettoso. Le corde possono avvolgere ogni forma, ogni pelle, ogni possibilità. Sta a chi pratica rendersi disponibile all’ascolto e alla cura.Corpi considerati “non conformi” spesso rivelano una ricchezza straordinaria nella pratica: perché richiedono più attenzione, più lentezza, più presenza.
E questo, nello Shibari, è un valore.

Lo Shibari è (anche) politico

Non serve essere attivistə per comprendere che ogni gesto sul corpo, ogni relazione che sfida gli schemi dominanti, è anche un atto politico.

Legare qualcuno, o lasciarsi legare, è molto più che un gioco erotico o una performance.
È un modo per ridefinire il potere, l’intimità, il controllo e la vulnerabilità.

In una società che associa la forza alla mascolinità, l’essere legatə può diventare per un uomo un atto di liberazione.
In un mondo che invisibilizza la sessualità delle persone disabili, fare Shibari può significare riscoprire il corpo come luogo di piacere e presenza.
Per una persona trans o non binaria, le corde possono offrire uno spazio dove essere toccatə, legatə, riconosciutə nel proprio sentire, senza dover spiegare o giustificare nulla.

Questi atti non sono “semplici variazioni sul tema”.
Sono rotture.
Sono possibilità di creare una sessualità e una relazione che non chiede permesso al modello dominante.

In questo senso, lo Shibari non è neutro.
È uno strumento potente che può confermare le norme, oppure scardinarle con grazia e consapevolezza.

Accessibilità, adattamento e rispetto radicale

Uno dei pregiudizi più comuni è pensare che lo Shibari non sia adatto a chi ha disabilità fisiche, sensoriali o neurodivergenze.
Nulla di più falso.
È lo sguardo abilista a non essere adatto allo Shibari.

In realtà, sempre più praticanti stanno reinventando il bondage in chiave accessibile.
Le sospensioni non sono obbligatorie. Le posizioni possono essere modificate. I tempi rallentati. I materiali adattati.
Si può usare il letto, una sedia, il pavimento. Si può usare meno corda. Più parole. Più silenzio. Più attenzione.

L’accessibilità nello Shibari non è un limite: è un invito a essere creativi, presenti e profondamente umani.

Chi lega deve essere preparato ad ascoltare i limiti dell’altrə, senza pietismo né eroismo.
Chi si fa legare ha diritto a sentirsi al sicuro, accolto, rispettato nei suoi bisogni.
E quando questo accade, il consenso diventa più che una regola: diventa un legame reale.

Lo Shibari accessibile non è un’eccezione. È una forma alta di cura.
È lì che si vede se una corda è veramente consapevole: nella capacità di adattarsi, non nella bravura tecnica.

Ridefinire i ruoli: mascolinità, vulnerabilità e potere

Lo Shibari è anche un terreno fertile per rimettere in discussione i ruoli tradizionali di genere.
Per decostruire cosa significa essere uomo, essere dominante, essere forte.

Nell’immaginario comune, chi si fa legare è spesso visto come fragile, passivə, subordinatə. E questo viene spesso proiettato sulle donne.
Ma cosa succede quando a essere legato è un uomo cisgender? O un uomo trans? O una persona non binaria che vive la propria mascolinità in modo fluido?

Succede che la vulnerabilità diventa un gesto rivoluzionario.

Lasciarsi legare non toglie potere: ne mostra un altro tipo.
Un potere fatto di fiducia, di resa consapevole, di esposizione intenzionale.
E legare, a sua volta, non è dominio fine a sé stesso: è responsabilità, ascolto, cura.

Quando lo Shibari smette di ripetere la dualità uomo/donna, attivo/passivo, dominante/sottomesso, allora si apre lo spazio per qualcosa di molto più interessante:
relazioni che esplorano il potere come danza, non come gerarchia.

E in questa danza, ogni genere può trovare espressione, gioco, dignità.

Una pratica viva, non una vetrina

In un’epoca dominata dai social e dall’immagine, è facile che anche lo Shibari venga ridotto a una performance visiva.
Scatti curati, pose spettacolari, estetiche impeccabili: tutto bello, certo. Ma non basta.

Quando lo Shibari viene mostrato solo come qualcosa di bello da vedere, rischia di perdere la sua natura più profonda:
quella di una pratica vissuta, corporea, relazionale, sensibile.

Le immagini patinate possono ispirare, ma spesso escludono.
Chi non si riconosce in quei corpi o in quelle dinamiche può sentirsi fuori luogo, non autorizzato, invisibile.
E soprattutto: si perde di vista il contesto.
Una legatura non è solo il risultato estetico finale: è un processo fatto di respiro, ascolto, pause, errori e dialogo.

Per rendere lo Shibari davvero inclusivo, serve una comunicazione che racconti tutto questo.
Che dia spazio a storie vere, a corpi veri, a esperienze vere.

Mostrare solo la bellezza finale è come fotografare una carezza e dimenticare la mano che l’ha data.

Conclusione – Lo Shibari come pratica radicale d’inclusione

Lo Shibari può essere molte cose: un gioco erotico, un’esplorazione artistica, un gesto d’amore, una forma di meditazione.
Ma soprattutto, può essere una pratica radicale di ascolto e inclusione.

Quando lasciamo spazio a corpi diversi, a desideri che non corrispondono agli schemi, a generi non binari, a storie che non rientrano nel mainstream, non stiamo “facendo un’eccezione”.
Stiamo tornando al cuore dello Shibari: la possibilità di incontrarsi davvero, dentro e attraverso il legame.

Nel mese del Pride, ma anche ogni altro giorno dell’anno, vale la pena fermarsi a riflettere su che tipo di spazio vogliamo costruire con le nostre corde.
Perché ogni nodo può essere un vincolo… oppure una forma di libertà condivisa.


 In sintesi: come rendere lo Shibari più inclusivo

  • Ascolta il corpo che hai davanti, non l’idea che hai in testa.
  • Adatta la tecnica, non il corpo.
  • Onora la diversità come una ricchezza, non come un limite.
  • Mostra ciò che è reale, non solo ciò che è fotogenico.
  • Ricorda che ogni pratica è anche una posizione politica: scegli da che parte stare.

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