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Questo articolo nasce dal desiderio di esplorare una delle emozioni più difficili da tradurre della cultura giapponese: hazukashii.

In quanto insegnante di Shibari e testimone quotidiano del rapporto fra corpo, sguardo e relazione, mi trovo spesso a osservare come l’imbarazzo, il pudore e la vulnerabilità diventino linguaggi.

Hazukashii non è solo una parola: è una chiave. Una soglia.

E in particolare nello stile Yukimura, questa emozione smette di essere un inciampo e diventa centro.

Questo testo vuole accompagnare chi legge in un piccolo viaggio tra emozione, cultura e corde.

Hazukashii: oltre l’imbarazzo, prima della colpa.

Nel mondo occidentale, quando si parla di vergogna, si evoca spesso un sentimento morale: una reazione negativa a un errore, a una trasgressione, o a qualcosa che “non si dovrebbe mostrare”. La vergogna è associata alla colpa, alla deviazione da una norma, alla perdita della dignità. È qualcosa da evitare, da superare, da cancellare. In giapponese, però, esistono almeno due parole diverse per indicare ciò che noi chiamiamo “vergogna”, e non sono né equivalenti né sovrapponibili: haji (恥) e hazukashii (恥ずかしい).

Haji è la vergogna morale per eccellenza. È intensa, dolorosa, spesso definitiva. Si prova quando si infrange una norma sociale o etica, e si teme che altri possano saperlo. È una ferita pubblica al proprio valore, alla propria posizione nella rete delle relazioni. Provare haji significa perdere la faccia, l’onore, la stima del gruppo. Non è un sentimento privato: è un dramma relazionale, che può segnare la vita in modo duraturo. In molte rappresentazioni classiche, haji è talmente insostenibile che può condurre all’espiazione o persino al suicidio. È l’equivalente di un disonore grave, non solo percepito ma anche riconosciuto come tale da chi guarda.

Hazukashii, invece, giace su un altro piano. È un’emozione più lieve, più tenera, e insieme più complessa. Si manifesta non quando si trasgredisce, ma quando ci si espone. Non nasce dal giudizio morale, ma dallo sguardo dell’altro che ci coglie in una condizione di vulnerabilità. Non indica una colpa, ma una nudità dell’essere. Si può provare hazukashii per aver detto qualcosa di troppo, per essere stati notati, lodati, o semplicemente visti in un momento intimo o goffo. È un’emozione relazionale che non punisce, ma ci ricorda quanto siamo delicatamente intrecciati agli occhi degli altri.

A differenza di haji, che tende a chiudere, hazukashii apre. È un movimento di ritrazione che contiene però una spinta all’incontro. È l’incertezza del mostrarsi, il pudore che non è censura ma coscienza dell’effetto che possiamo avere su chi ci guarda. In questo senso, hazukashii rivela una sensibilità relazionale finissima, in cui l’identità non è definita da un codice morale assoluto, ma da un gioco sottile di sguardi, gesti e risonanze emotive.

La cultura giapponese riconosce, dunque, che la vergogna non è un monolite. Non tutto ciò che ci fa arrossire ci umilia, e non tutto ciò che ci mette a disagio è da nascondere.

Hazukashii ci dice che la vulnerabilità non è sempre un difetto: può essere una forma di sincerità, un invito alla delicatezza, persino un luogo di bellezza.

Tra le emozioni codificate dalla lingua giapponese, hazukashii è una delle più delicate e sfuggenti da tradurre. Spesso resa in italiano con termini come “imbarazzante”, “vergognoso”, “timido”, o “che mette in soggezione”, questa parola porta con sé una ricchezza semantica che sfugge a qualunque singola equivalenza. Hazukashii non è semplicemente un fastidio o una reazione sociale momentanea: è una forma di vulnerabilità relazionale profondamente culturale, che si manifesta quando il proprio sé entra in contatto con lo sguardo dell’altro e si scopre, per un attimo, esposto.

In giapponese, hazukashii può descrivere molteplici situazioni: la timidezza di fronte a un complimento, il disagio nel mostrarsi nudi, la ritrosia a prendere la parola davanti a un gruppo, ma anche l’imbarazzo tenero del primo incontro romantico, o la goffaggine sincera di chi fa un errore senza malizia. È un’emozione che rivela quanto l’identità, in Giappone, sia strutturalmente legata al contesto relazionale: non si è semplicemente se stessi, si è visti come se stessi da qualcuno. E in quello sguardo prende forma il sentire di essere troppo, o troppo poco, fuori posto o troppo esposti.

Ciò che rende hazukashii affascinante è la sua ambivalenza. Non è un’emozione negativa nel senso occidentale del termine, non segnala una colpa o un fallimento. Al contrario, può essere parte di un processo intimo, persino desiderabile, in cui ci si lascia toccare dallo sguardo dell’altro. È pudore e apertura insieme. È il confine fragile dove nasce la consapevolezza di essere osservati, desiderati, giudicati o accolti. E spesso, nei contesti giapponesi, è considerato un tratto umano prezioso, che conferisce autenticità e delicatezza alle interazioni. Non è un caso che anche i bambini vengano educati a riconoscerlo, a viverlo, persino a custodirlo.

In questa prospettiva, hazukashii non è solo un’emozione, ma una disposizione etica, estetica e relazionale. Un modo di stare nel mondo. Un equilibrio continuo tra il desiderio di apparire e quello di ritirarsi, tra la presenza e il silenzio. È in questo equilibrio, talvolta instabile e sempre vibrante, che si rivela una delle chiavi più sottili della sensibilità giapponese.

Hazukashii come esperienza incarnata

Hazukashii non è soltanto un concetto astratto o una categoria emotiva. È prima di tutto un’esperienza fisica, che si manifesta nel corpo, nei gesti, nei silenzi. Non si prova solo hazukashii, lo si incarna. Il volto si abbassa, lo sguardo si sfugge, le mani si agitano nervosamente, le guance si arrossano, la voce si incrina o si spegne. Non c’è bisogno di parole: il corpo parla prima, raccontando una tensione tra il desiderio di essere visti e il bisogno di nascondersi.

In molte culture occidentali l’imbarazzo è visto come una debolezza, un inciampo sociale, qualcosa da superare con disinvoltura o ironia. Ma nella sensibilità giapponese, hazukashii è un indice di consapevolezza. Mostra che una persona sa di essere immersa in una rete di sguardi e significati, e reagisce con una forma di pudore attivo. Non è timidezza passiva: è un gesto di attenzione, un modo per onorare l’altro riconoscendo il proprio effetto su di lui o lei.

Questa emozione, così delicata, si manifesta spesso in contesti relazionali asimmetrici o intimi: lo studente davanti all’insegnante, l’amante davanti all’amato, il corpo nudo davanti al fotografo, il performer davanti al pubblico. In ognuno di questi casi, hazukashii non è solo imbarazzo, ma consapevolezza incarnata del proprio essere esposto, e quindi risonante. Si è consapevoli di poter essere guardati, giudicati, desiderati, accolti — e tutto questo passa attraverso la pelle, la postura, la voce, il respiro.

Anche la lingua giapponese riflette questa incarnazione. Il verbo hazukashigaru (恥ずかしがる), ad esempio, indica il “provare hazukashii in modo visibile”: è un modo per descrivere non solo l’emozione, ma il comportamento che la rivela. Così, l’emozione diventa performance del sé, manifestazione sociale. E chi osserva non è un giudice, ma un testimone.

Capire hazukashii come fenomeno incarnato ci prepara ad avvicinarci a pratiche dove il corpo e la relazione sono messi in scena in modo esplicito, come lo Shibari. Ma lo Shibari, come vedremo, non è una semplice teatralizzazione dell’imbarazzo: è, quando consapevole e profondo, un rituale di hazukashii condiviso, indagato, abitato.

Hazukashii e Shibari: l’arte di esporsi

Lo Shibari, nella sua forma più consapevole, non è semplicemente una tecnica di costrizione. È un linguaggio relazionale, costruito attraverso il corpo, il contatto, il ritmo e lo sguardo. E proprio per questo, è anche una pratica profondamente connessa all’esperienza di hazukashii. Essere legati, osservati, toccati, guidati: tutto questo espone chi riceve le corde a una condizione di vulnerabilità strutturale, in cui l’equilibrio tra resa e controllo non è mai statico. Hazukashii, in questo contesto, non è un effetto collaterale. È il cuore pulsante dell’esperienza.

Nel momento in cui una persona si lascia legare, il corpo diventa superficie di scrittura e di sguardo. Ogni gesto, ogni reazione, ogni esitazione acquista significato. Non è solo la pelle a essere nuda: è l’emozione a essere messa a nudo. E con essa, emerge l’imbarazzo dell’essere visti così come si è, senza filtri né armature. Per molte persone, questo è il momento in cui hazukashii si manifesta con forza: un rossore, un tremito, un sorriso trattenuto, lo sguardo che cerca rifugio. Non perché ci sia qualcosa di sbagliato, ma perché ci si sente reali, visibili, attraversati dallo sguardo dell’altro.

Questo tipo di esposizione non è sempre facile da gestire, soprattutto in una cultura che spesso identifica l’efficacia con il controllo e la forza con l’invulnerabilità. Ma lo Shibari, quando viene vissuto in modo etico e consapevole, rovescia questa logica. Invita alla sospensione del controllo, alla presenza piena, alla co-esistenza di forza e delicatezza. E nel farlo, crea uno spazio in cui hazukashii può emergere non come limite, ma come valore. È ciò che rende il momento “vivo”, irripetibile, significativo.

Chi lega, se è davvero attento, non può non cogliere questa vibrazione sottile. Legare in modo etico non è solo un’azione tecnica, ma un ascolto continuo del corpo e dell’anima dell’altro. Ed è in quell’ascolto che hazukashii diventa un segnale prezioso: dice che lì, in quel punto, qualcosa si è aperto. Che si è superato il livello formale della performance, per entrare nel territorio incerto, ma autentico, dell’intimità.

In questo senso, potremmo dire che ogni sessione di Shibari porta con sé la possibilità di attraversare un confine emotivo. E hazukashii è spesso il primo passo. Non come ostacolo, ma come soglia.

Lo stile Yukimura: hazukashii come centro della scena

Se molti stili di Shibari pongono l’accento sulla forma, sul controllo, sulla spettacolarità delle legature o sulla gestione del dolore, lo stile Yukimura si distingue per una scelta radicalmente diversa: portare al centro dell’esperienza l’emozione della vulnerabilità. E in particolare, l’emozione di hazukashii. Qui le corde non servono a contenere il corpo, ma a esporre l’anima. Ogni gesto, ogni nodo, ogni silenzio è costruito per far emergere quella tensione intima tra desiderio di abbandono e pudore, tra bisogno di essere visti e paura di esserlo troppo.

Yukimura Haruki, Maestro discreto e raffinato, non ha mai insegnato uno “stile” in senso tecnico. Ha trasmesso un modo di entrare in relazione. Il punto focale delle sue sessioni non era la posizione finale, ma la trasformazione che avveniva nel processo: il passaggio da una persona che si offre, a una persona che si lascia vedere, sentire, tremare. Il gesto di legare era lento, attento, privo di urgenza. E nello spazio creato da quel ritmo, hazukashii poteva emergere con forza e grazia.Lo stile Yukimura non cerca l’estetica da copertina. Non vuole stupire, ma toccare. Non mostra il legato come trofeo, ma la relazione come luogo vivo, fragile, reale. È uno Shibari che si muove nei territori dell’eros sottile, dove il nodo è solo un pretesto per avvicinarsi a ciò che, normalmente, si protegge. E spesso ciò che si protegge con più forza è proprio hazukashii: quel rossore che sorge senza volerlo, quella voce che si spezza, quello sguardo.

Hazukashii come forma di verità



Comprendere hazukashii significa accettare che non tutto ciò che mette a disagio vada evitato, e che non tutta la vergogna sia tossica. In un’epoca in cui si esalta l’autenticità ma si teme l’esposizione, questa parola giapponese ci offre una prospettiva più sottile e, forse, più vera. Hazukashii non è debolezza: è la traccia viva di un contatto. È il segnale che qualcosa ci attraversa, che ci riguarda, che ci smuove. È un confine che, se rispettato, può aprire territori inesplorati dell’intimità.

Nel contesto dello Shibari, e in particolare nello stile Yukimura, hazukashii non è solo una possibilità: è un linguaggio. Un gesto che parla al di là delle parole, una fessura in cui entra la cura, l’ascolto, la bellezza fragile della verità. Non c’è artificio tecnico che possa sostituire quello che accade quando una persona si lascia guardare mentre sente — e chi guarda sa restare con quella visione senza possederla.

In una cultura spesso ossessionata dal mostrare tutto, hazukashii ci ricorda il valore dell’esitare. In un mondo che misura il valore in base alla prestazione, ci riporta all’umano che trema, si sbilancia, arrossisce. E ci insegna che è proprio in quel tremore che, talvolta, accade la cosa più preziosa: si crea relazione. Non perché tutto è perfetto, ma perché qualcosa si lascia vedere.

Hazukashii, allora, è molto più che imbarazzo. È un ponte tra mondi. È una finestra sulla delicatezza. È una pratica di presenza. È, forse, uno dei modi più profondi per abitare la pelle — e per legarsi, davvero.

che si ritrae mentre, in fondo, cerca una carezza.

Per questo, chi pratica lo stile Yukimura impara a leggere l’imbarazzo non come errore, ma come traccia. Non come qualcosa da superare, ma come uno dei punti più densi di significato della sessione. Quando il/la bottom arrossisce, si muove a disagio, evita il contatto visivo, non è segno che qualcosa “va storto”. Al contrario: è un segnale che qualcosa di autentico sta accadendo. Che si è toccata una zona dove il corpo non finge più. Dove l’identità si allenta, e resta solo la relazione.

In questo senso, hazukashii è non solo previsto, ma cercato nello stile Yukimura. Non per esibirlo, non per umiliare, ma per creare un contesto in cui possa fiorire senza vergogna. È una forma di ascolto profondo, che fa dello Shibari non una prova di abilità, ma un rituale silenzioso di rivelazione. Dove ciò che viene legato, alla fine, non è il corpo. Ma lo spazio stesso tra chi guarda e chi si lascia guardare.

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